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Scuola e società: sì, ma, però…

Pubblicato il: 14/06/2011 12:52:31 -


Solo una scuola che si impegni a ricostruire una sua identità, che politiche colpevoli hanno minato e leso, può anche costruire rapporti positivi con il sociale, selezionando solo ciò che è utile al suo sviluppo e contrastando tutte le innumerevoli suggestioni negative di cui l’attuale sociale è più che prodigo.
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Erano gli anni Sessanta del secolo scorso quando avviammo la battaglia per una scuola diversa, che non fosse più selettiva, in cui il centro di attenzione fosse l’alunno che apprende più che il docente che insegna, soprattutto per quelle migliaia di ragazzi che per la prima volta, in seguito all’innalzamento dell’obbligo di istruzione a otto anni, entravano in un’aula di scuola media… secondaria superiore di primo grado, per giunta… dopo secoli di attesa! Ovviamente, alludo a quelle fasce di popolazione che da sempre erano state escluse dall’accesso alla scuola.

Furono gli anni in cui cominciammo a pensare, e a fare, una scuola non solo a “tempo pieno”, ma anche a “spazio aperto”: una scuola dal tempo più lungo e aperta al territorio! Dicemmo basta alle suggestioni esclusivamente disciplinariste! In altri Paesi comportamentismo e cognitivismo stavano ormai facendo il loro tempo e lo stesso Bruner con i suoi “Saggi per la mano sinistra” (1) spezzava una lancia a favore di un’istruzione che sollecitasse non solo il pensiero logico lineare, ma anche quello intuitivo, olistico, reticolare. Erano gli anni in cui cominciammo a parlare di curricolo, di programmazione, di valutazione formativa e in parallelo avvertimmo la profonda esigenza di aprire la scuola alla società, alle sue istanze, al fine di creare un legame che da sempre era stato ignorato. Ci adoperammo per una scuola che non fosse una fucina chiusa di saperi, ma che fosse in grado di cercarli anche altrove, in quelle “valenze educative”, come amava chiamarle Filippo De Sanctis (2), di cui il territorio circostante la scuola era pur sempre ricco, dal monumento ai caduti alla fabbrica, dalla chiesa medievale alla toponomastica, al Consiglio comunale, e così via! E con i “decreti delegati” del ’74 si avviò quel processo di democratizzazione, di cui l’istituzione degli organi collegiali fu il segnale più significativo.

Furono decenni importanti: la scuola per l’infanzia e la scuola elementare erano all’apice delle classifiche internazionali; la scuola media, dopo le iniziali bocciature e le critiche di Don Milani, permise di abbassare in pochi anni quegli alti tassi di analfabetismo che ancora caratterizzava il nostro Paese; e l’istruzione secondaria, soprattutto la tecnica e la professionale, sostenute da innovazioni sperimentali di tutto rilievo, accompagnarono il boom economico dotando il nostro Paese di quadri tecnici di indubbio valore! Con gli anni Novanta tentammo un’impresa ardita: l’avvio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, un nuovo innalzamento dell’obbligo di istruzione, il riordino dei cicli scolastici, la liquidazione dell’esame di maturità, ormai fuori del tempo, per dare avvio a un esame centrato sulla certificazione delle effettive competenze raggiunte dagli studenti (3). E poi?

E poi un inarrestabile declino! Forse le riforme avviate da Berlinguer erano troppo avanzate? Necessitavano di tempi di riflessione e maturazione più lunghi? Non so! Fatto sta che con l’avvio del Terzo millennio la scuola sembra essersi immessa su di un piano inclinato: prima la contestatissima riforma Moratti, poi gli aggiustamenti di Fioroni e oggi il duopolio Tremonti/Gelmini (4): tagli a non finire e riordini funzionali soltanto a un preteso pareggio del bilancio, il cui traguardo sembra farsi sempre più lontano.

È criminale disinvestire proprio nell’istruzione e nella ricerca in una società globale che sempre più si caratterizza per la necessità di implementare conoscenze sempre più avanzate. E ciò significa anche lasciare che la scuola, erosa al suo interno, venga anche aggredita dall’esterno. Una scuola forte e in crescita, che si apre alla società, è in grado di controllare i flussi delle informazioni dall’esterno, cercando e valorizzando le loro “valenze educative”, ma una scuola in perenne crisi rischia di aprirsi solo a ciò che l’esterno produce di negativo. Gli organi collegiali territoriali di fatto non esistono, la presenza dei genitori nelle scuole sembra essere più aggressiva e ricattatoria che mai! Per non dire poi del malgoverno e del malcostume dilaganti, di una lingua sempre più maltrattata, un insieme di occasioni profondamente diseducative per i nostri giovani.

Oggi sembra che ciò che “si apprende” fuori della scuola sia più importante di ciò che si apprende al suo interno. La scelta a suo tempo effettuata di valorizzare con opportuni crediti le esperienze extrascolastiche che avessero un carattere formativo rischia oggi di far “passare” per buone anche le esperienze più lontane da veri e propri processi di formazione che abbiano un benché minimo legame con le discipline di studio. E poi va analizzata un’altra circostanza: quarant’anni fa lo spazio aperto era quello sul quartiere, sulla città, sulla Regione al massimo; oggi lo spazio aperto in prima istanza dai ragazzi è quello dei cellulari sempre accesi, di Youtube, dei social network, di un web che offre mille traduttori di Cicerone e mille esercizi risolti degli integrali! Pertanto, mentre da un lato, a causa di una politica scolastica sempre più irresponsabile, perdono vigore gli insegnamenti disciplinari, entrano con spavalderia le marmellate di giganteschi “copio-copias”! In altri termini, se la scuola si apre al sociale partendo da precisi punti di forza, la scuola si arricchisce. Ma, se la scuola, sempre più debole, spalanca le porte all’invasione delle mode più indifferenziate, non fa altro che accelerare la sua decadenza. Ne perde in credibilità e in autorevolezza. Quando poi le statistiche ci dicono che, al fine di trovare un posto di lavoro ciò che conta è la raccomandazione più che le competenze debitamente certificate, il gioco è fatto.

Sempre negli anni Settanta alcuni ricercatori prevedevano addirittura la morte della scuola (5), nella misura in cui il sociale si fosse via via arricchito di tutta una serie di istanze costruite ad hoc per l’istruzione. E oggi stiamo proprio precorrendo questo rischio, ma dagli esiti totalmente rovesciati. In quegli anni una società “sana” forse poteva farsi carico di assorbire nelle sue diverse istanze funzioni che una certa tradizione aveva preferito delegare a una istituzione dedicata. Ma quanti sono oggi i corpi sani del sociale che potrebbero attendere a tale funzione? Oggi ci troviamo in una situazione tale in cui dobbiamo difendere con le unghie e con i denti l’istituzione scuola che la stessa società aggredisce giorno dopo giorno, per giunta direttamente sollecitata da una politica che considera scuola e istruzione un inutile ammortizzatore sociale! Parole dei nostri ministri Tremonti e Gelmini!

È per tutto questo insieme di ragioni che il rapporto tra scuola e società deve essere assolutamente riconsiderato. Mentre l’importanza delle discipline e di tutte le loro intersezioni pluri- e interdisciplinari viene sempre più aumentando anche per la progressiva crescita delle conoscenze in ogni branca del sapere, il sociale sembra condurre una continua aggressione contro il sistema scuola, svalutandone l’importanza se non addirittura irridendola! La via breve del successo a poco prezzo, magari passando per Arcore, è sempre per certi versi suggestiva, e la sottovalutazione della cultura in senso lato è un dato di fatto. Aumenta la percentuale dell’illetteratismo (6), mentre le nostre aziende hanno difficoltà a trovare quadri tecnici intermedi.

In un contesto di questo tipo, tutta la questione dei rapporti tra scuola e società va riconsiderata. Certamente non occorre riandare al primo Bruner, secondo cui l’istituzione scuola era una sorta di fucina in cui strutture cognitive e strutture disciplinari interagivano indipendentemente da ciò che avveniva al di fuori. Ed è poi lo stesso Bruner che ci sollecita con quella “Cultura dell’educazione” (7) a ritrovare sempre i nessi che corrono tra la cultura dell’educazione, appunto, e quella cultura ampia con cui interagisce e di cui si arricchisce. Solo se il sistema scuola riesce a ritrovare una sua identità e un suo primato tra le istituzioni che costituiscono un assetto sociale, si può riannodare una ipotesi sui legami che corrono tra scuola e società. Il tutto, però, con altri obiettivi e con altri scenari: che sia la scuola a governare tali legami, sulla base della vision che deve perseguire e della mission che deve svolgere.

Solo una scuola che si impegni a ricostruire una sua identità, che politiche colpevoli hanno minato e leso, può anche costruire rapporti positivi con il sociale, selezionando solo ciò che è utile al suo sviluppo e contrastando tutte le innumerevoli suggestioni negative di cui l’attuale sociale è più che prodigo. C’è un mercato del lavoro che avanza domande che spesso dalla scuola vengono inevase; c’è la sovrabbondanza dei beni culturali che tutti gli stranieri ci invidiano. Appena due esempi. Ma sia la scuola a scegliere dove, come e perché interagire. La migliore difesa dalle aggressioni dall’esterno è aggredire quel tanto di “buono” che fuori della scuola ancora c’è.

E forse la parola d’ordine del convegno di ottobre di Education 2.0, “la scuola nuova nasce dal basso”, può essere un buon passpartout! Anche nonostante le politiche antiscuola e anticultura dell’attuale maggioranza di governo!

NOTE

(1) Siamo nel ’62, a ridosso del Convegno di Woods Hole, in cui l’intero sistema di istruzione statunitense viene messo in discussione, anche perché si era ingaggiata una sorta di gara tra i due colossi di allora, Usa e Urss, in materia di istruzione, ricerca, avanzamento scientifico. I “Saggi” bruneriani vennero pubblicati in Italia per la prima volta da Armando nel 1990, trent’anni dopo la loro prima pubblicazione: il cammino verso una strategia dell’insegnare/apprendere che andasse oltre la scuola della lezione da noi era ovviamente più lento.
(2) Filippo Maria De Sanctis fu tra i primi a occuparsi di educazione degli adulti nel nostro Paese. Si veda in particolare, “L’educazione degli adulti in Italia. Dal ‘diritto di adunarsi’ alle 150 ore”, Editore Riuniti, Roma, 1978. Giova ricordare che con le 150 ore migliaia di adulti “cacciati” dalla scuola come alunni, vi ritornarono rivendicando il loro diritto allo studio perduto.
(3) Si vedano la legge delega 59/97 e il dpr 275/99 per l’autonomia, la legge 9/99 per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, la legge 30/2000 per il riordino dei cicli, la legge 425/97 per la riforma dell’esame di maturità.
(4) Si vedano la legge delega 53/03 e i dlgs 59/04 e 226/05 per la “riforma Moratti”, il dm 31/07/07 e il dm 139/07 per gli aggiustamenti di Fioroni, il dpr 89/09 (riassetto del primo ciclo) e i dpr 87/10. 88/10 e 89/10 (riordino del secondo ciclo), relativi agli interventi della Gelmini.
(5) Si rinvia alle ricerche di Paul Goodman, Everett Reimer, Ivan Illich che in quegli anni suscitarono sia interesse che allarme. Pur essendo suggestiva l’ipotesi che il sociale si appropriasse di tutta una serie di istanze educative, rimaneva sempre il fatto che solo una istituzione ad hoc, forte e pubblica avrebbe potuto svolgere quell’azione di redenzione educativa, culturale e sociale a cui in quegli anni masse ancora incolte aspiravano. Si trattava di un’ascesa che avrebbe garantito loro un lavoro stabile nonché il godimento di tutti quei diritti che una società avanzata deve garantire. E nel nostro Paese la Carta costituzionale si esprimeva, e si esprime tuttora, proprio in tal senso.
(6) Nel convegno “La conoscenza come materia prima”, svoltosi nello scorso aprile a Roma, Tullio De Mauro ha dichiarato che la dealfabetizzazione colpisce in Italia circa l’80% della popolazione adulta. Si verifica una perdita progressiva delle conoscenze acquisite a scuola, che in alcuni casi arriva a sfiorare l’analfabetismo. Il 46% della popolazione tra i 25 e i 64 anni ha come titolo di studio più elevato solo la licenza media (la media europea si attesta al 27,9%), e solo il 6% degli adulti è impegnato in attività formative. I giovani che abbandonano gli studi senza conseguire un titolo di scuola media superiore superano il 19% (la media UE è 14,4%) e gli universitari che portano a termine un corso di laurea sono solo il 32,8%. La decadenza culturale avrà anche riflessi sull’economia data la relazione che corre tra sviluppo delle competenze e sviluppo socioeconomico.
(7) “The Culture of Education” è stato pubblicato ad Harvard presso la University Press nel 1996.

Maurizio Tiriticco

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